LETTERA DI CARLO LUCARELLI
A GIORGIO SCERBANENCO
Mordano, 19.07.1999
Gentile signor Scerbanenco,
sono un suo affezionato lettore e le scrivo
per dírle che mi sono piaciuti molto i suoi
libri. Non li ho letti tutti, dal momento
che la sua bibliografia sterminata conta
quasi un centinaio di romanzi e un migliaio
di racconti che vanno dal noir al rosa passando
attraverso l'intimismo autobiografico e il
giallo classico, ma quelli che ho letto mi
hanno talmente colpito che sento il bisogno
di scriverle questa lettera, scusandomi in
anticipo del tempo che le farò perdere.
Mi ricordo che avevo quattordici anni quando
lessi il suo primo libro. Era il 1974, lei
era morto da cinque anni, ed era una domenica
pomeriggio in cui avrei fatto qualunque cosa
pur di non fare i compiti. L'alibi migliore
era mettersi a leggere, ma nella libreria
di mio nonno, da cui ero andato a pranzo,
non c'era niente di decente. Poi, vedo quegli
strani occhi che mi fissano obliqui e stilizzati
dalla costola bianca di un Giallo Garzanti,
appena sopra il titolo, I ragazzi del massacro. Lo sfilo, lo apro, leggo l'inizio: "La
signorina Matilde Crescenzaghi fu Michele
e Ada Pirelli, nubile, insegnava alla scuola
serale Andrea e Maria Fustagni" e ci
resto così così perché quel tono formale
e precisino mi sembra una cosa da libro Cuore, ma il finale del prologo, "Meglio
sarebbe stato che la classe fosse tenuta
da un sergente maggiore della Legione Straniera,
e non da lei, fragile, delicata signorina
della piccola borghesia dell'Alta Italia",
mi incuriosisce e volto pagina. "E'
morta cinque minuti fa' disse la suora",
un inizio classico da giallo, a cui segue
una delle pagine più dure e crude che siano
mai state scritte in un romanzo. Da quel
momento non ho potuto mollare il libro, catturato,
affascinato e sconvolto da una realtà che
non conoscevo, da pieghe nascoste del cuore
umano che non credevo neppure esistessero,
da un mistero feroce, malinconico e disperato
raccontato come non credevo fosse possibile,
con quelle parole semplici, dirette e crude,
apparentemente formali e precisine come quelle
dell'inizio. Non ho fatto i compiti, sono
andato male all'interrogazione e alla fine
non mi sono neanche laureato, ma ho letto
tutti i suoi romanzi simili a quello e sono
diventato uno scrittore anch'io.
Sa qual è la cosa che più mi ha colpito nei
suoi libri? Il coraggio. Tanti tipi di coraggio,
ostinato, silenzioso e freddo, vagamente
autoironico, come appare lei nelle fotografie,
con quel suo sorriso sottile sotto a quel
naso arcuato che sembra un becco. Il coraggio
della contraddizione, per esempio. Il suo
personaggio più noto, protagonista di quattro
romanzi, è Duca Lamberti, ed è una contraddizione
vivente. Appare per la prima volta nel marzo
1966, in Venere privata,
ed è uno strano poliziotto. Intanto non
è un poliziotto ma un medico, no, anzi, non
è neppure un medico. Lo era, finché non lo
hanno radiato dall'Ordine a vita e messo
in galera per tre anni per aver praticato
l'eutanasia ad una sua anziana paziente malata
di cancro. Nelle prime pagine del romanzo,
se ne sta seduto su una panchina a passare
il tempo contando i sassolini di un viale,
come ha imparato a fare in galera, aspettando
che arrivi un ruvido industriale brianzolo
che vuole assumerlo come baby sitter del
figlio "grand e ciula", che sta
inspiegabilmente cercando di suicidarsi a
forza di bere. C'è un motivo per cui il ragazzo
fa questo, c'è un mistero, una cosa tremenda,
che Duca deve risolvere se vuole salvare
il ragazzo. Così si trasforma in un poliziotto,
ma è uno strano poliziotto, determínato,
feroce, apparentemente cinico e invece fragile,
inquieto e disperatamente sensibile. Non
è un duro all'americana, Duca, è un italiano
che ne ha viste troppe e ci sta male. Ma
come poliziotto è proprio strano. "Siccome
i morti non tornano e nè io nè nessuno può
portarle qui Alberta viva" dice al figlio
dell'industriale, "allora noi dobbiamo
fare qualche altra cosa. Quella più importante
è di trovare la persona che l'ha uccisa,
o che l'ha costretta ad uccidersi, e quando
l'abbiamo trovata la strozziamo, lei deve
pensare questo, che la troveremo e la strozzeremo".
Non la strozzano, e nel romanzo successivo,
Traditori di tutti, uscito lo stesso anno, Duca viene assunto
dalla Questura di Milano, dove rimane anche
in I ragazzi del massacro, dell'agosto 1968, e I milanesi ammazzano al sabato, dell'aprile 1969, a raccontare, lui, tutte
le contraddizioni di un'Italia che vale anche
oggi, quella dei poveri cristi, degli emarginati,
degli alienati e degli indifferenti nascosti
tra le pieghe di un paese inebriato dal boom
economico delle prime lavatrici e delle prime
seicento, quella di una criminalità nuova
assurdamente feroce, senza più pudore e senza
più paura, quella del potere, delle coperture
politiche e degli insabbiamenti, quella della
brava gente "dolorante e disperata"
come Amanzio Berzaghi, vecchio milanese camionista,
che lo sa che ammazzare "l'è minga giust,
ma che in un meraviglioso e imprevedibile
sabato novembrino" perde la testa. E' in questa Italia così moderna e così
attuale che Duca cerca i bari, quelli che
non stanno alle regole, "i banditi con
l'ufficio legale a latere" che "imbrogliano,
rubano e ammazzano, ma hanno già studiato
la linea di difesa con il loro avvocato nel
caso fossero scoperti e processati e non
vengono mai puniti abbastanza". E li
cerca con tanto odio e con tanta rigida determinazione
da farsi scambiare per fascista. Mi perdoni,
ma l'ho sentito dire anche di lei, l'ultima
volta in Francia, da scrittori di noir autori
di romanzi molto simili ai suoi: "Scerbanenco?
ma non è un fascista?" lo non ci credo.
Credo che sia piuttosto l'arrabbiatura e
l'abbruttimento di chi ha visto "troppa
miseria", come lei stesso racconta in
un frammento bellissimo di autobiografia
che si chiama Io, Vladimir Scerbanenko, e che si trova in fondo all'edizione di Venere privata che Garzanti ha ristampato negli Elefanti.
Lo stato d'animo di un russo figlio di madre
italiana col padre fucilato durante la rivoluzione,
un romano di Kiev con una k di troppo nel
cognome, che cerca di sopravvivere e di farsi
accettare in un paese in cui si sente straniero,
operaio al tornio di una fabbrica di sveglie,
filosofo autodidatta, paziente di sanatorio,
ambulanziere e poi contabile alla Croce Rossa,
e alla fine autore di racconti, redattore
e direttore di riviste femminili, scrittore.
E forse, anche i pregiudizi di un uomo morto
e vissuto prima dei '68 e di tutto il resto.
Ma non un fascista.
C'è un altro coraggio nei suoi libri, ed
è il coraggio di chíamare le cose con il
loro nome. E' un coraggio che non si trova
spesso nella letteratura italiana, fino a
non molto tempo fa neppure in quella di genere
e oggi men che mai nella fíction cinematografica
o televisiva. Niente filtri per schermare
la realtà, che è disperata, feroce, nuda
e cruda come nei romanzi, più noti, di un
James Ellroy o di un Jim Thompson. Nessuna
scusa e nessun compromesso, nessun eroe senza
macchia, a partire da Duca Lamberti o dai
suoi colleghi questurini. "E come è
stato scoperto?" "A schiaffi. Era
Mascaranti che l'interrogava. Quando combinano
quei trucchi non pensano mai agli schiaffi.
Non c'è mica bisogno di tante torture cinesi,
al quinto o sesto schiaffo di Mascaranti,
uno deve decidere prima che il cervello gli
vada in acqua". Non è bello, non è giusto,
lo dice anche Duca, lo dice anche lei, ma
è cosi che succede ed è così che si racconta.
Chiamando le cose con il loro nome con uno
stile che è sempre così rapido e concreto
da sembrare a volte abbozzato o sgrammaticato
e invece no, è una scelta accurata che non
trascura nessuna parola, neppure i nomi della
gente. Come ne "La lussuria", uno dei cinquecento racconti che
Frassinelli ha raccolto nell'introvabile
Il Cinquecentodelitti, dove siede a testimoniare una donna grigia,
"vestita di grigio, sembrava avesse
un grembiule più che un abito, aveva il viso
grigio come l'abito, cosi i capelli, e anche
la voce sembrava grigia". E come si
chiama? Erminia Lavini, un nome desueto ma
non abbastanza, che sembra stinto a forza
di lavarlo.
E poi c'è un altro coraggio, uno dei più
importanti: il coraggio di essere un narratore.
Un narratore, uno che racconta storie, uno
scrittore e basta, diremmo noi, ma non importa.
Uno che se ne frega della divisione tra Letteratura
Alta e letteratura bassa, e con artigianale,
minuziosa e ardente passione, "ogni
settimana, per non dire ogni giorno, per
non dire ogni ora" come scrive Oreste
del Buono nella sua prefazione al suo Millestorie, sempre di Frassinelli, "era in grado
di sfornare una storia fornita di trama e
personaggi dotati di una toccante tendenza
ad imprimersi nella memoria". Storie,
storie vere ed eccezionali anche se minime,
racconti di poche righe che per densità potrebbero
essere le righe centrali di un romanzo di
centinaia di pagine. Storie imparate da quella
vita di miseria, dettate dalla sensibilità
dello scrittore o sentite in tutti quegli
anni passati a rispondere alla posta dei
lettori, seduto alla macchina da scrivere
dei settimanali rosa come in un confessionale
laico. Storie da raccontare, come va fatto
e senza tante scuse. Lei lo dice con la solita
semplicità, e sembra quasi facile. "il
profano pensa che l'ispirazione sia qualcosa
di magico (...). E' molto bello pensare al
poeta che guarda il cielo azzurro in attesa
dell'ispirazione. Ma non è così. Si scrive
quando si vuole e l'ispirazione, forse, non
esiste. Come in tutte le cose bisogna soltanto
aver voglia di scrivere, averne piacere.
Anche per stirare un mucchio di biancheria,
o per fare una maglia con i ferri bisogna
averne voglia o piacere (...). A me piace
scrivere". Bè, questo lo abbiamo visto.
Come abbiamo visto il suo coraggio nel rapportarsi
alla narrativa di genere e alle sue stesse
regole. Entrando e uscendo dai canoni del
giallo e del noir, contravvenendo alle regole,
costruendo trame che riescono ad essere sempre
avvincenti anche quando sono ingenue, come
quelle di Raymond Chandler, permettendosi
di abbandonarsi a sentimenti di estrema tenerezza
anche nei racconti più duri, fino a scrivere
decine e decine di romanzi rosa, centinaia
di racconti d'amore, infischiandosene di
qualunque etichetta e di qualunque norma,
se non quella di scegliere il modo più giusto,
la struttura narrativa più efficace per raccontare
una storia.
Perché sono importanti le storie. Lei lo
dice con chiarezza, anche questo, in Io, Vladimir Scerbanenko, e lo dice con la tecnica del migliore autore
di noir. Riceve una lettera da una lettrice
che si vuole suicidare, lei gli risponde
con tutta la forza di convinzione che uno
scrittore può comunicare, le parole giuste,
le motivazioni giuste, tutto, ma quella cerca
di uccidersi lo stesso. Allora la letteratura
è inutile? Allora scrivere, raccontare, criticare,
denunciare, mostrare le contraddizioni e
le ipocrisie della società come ha fatto
lei, come fanno gli scrittori di noir, come
facciamo noi, è completamente inutile? Ci
sono rimasto male, quando ho letto quelle
righe, ma poi, poco dopo, ecco il colpo di
scena. "Un'altra volta sola sentii in
una lettera lo stesso dilagante desiderio
di morire". Lei le risponde, come l'altra
volta, e la signora dice che la ringrazia
ma che si ucciderà lo stesso. Lei continua
a scriverle e la signora le risponde, dice
che si uccide ma intanto continua a rispondere
e "ancora l'anno scorso ho ricevuto
una sua lettera. Questa volta le parole erano
riuscite a fermare quel desiderio, la mano
stesa davanti alla locomotiva aveva fermato
il treno in corsa. Qualche volta accade,
e allora penso che il mio mestiere di scrivere
non è inutile".
La saluto cordialmente e scusandomi ancora
per il tempo che le ho fatto perdere la ringrazio
dell'attenzione che ha voluto dedicarmi,
suo
CARLO LUCARELLI